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catene invisibili

catene invisibili

13 aprile 2015
1.748 visite

Svetlana era una ragazza dell’est Europa  e lavorava come cameriera in un locale. Essendo una bella ragazza, spesso, durante l’orario di lavoro, le capitava di essere avvicinata da ragazzi o uomini che volevano attaccare bottone. Lei, però, era abituata ed era perfettamente in grado di gestirli. Un giorno le si avvicinarono due uomini, non erano come gli altri. Le dissero che fare la cameriera in Italia sarebbe stato molto più conveniente, il guadagno sarebbe stato maggiore. Un loro amico, proprietario di un locale in Italia, era in cerca di personale. Svetlana aveva accettato, spinta dal desiderio di avere una vita migliore.


Una volta giunta in Italia, però, ha trovato una realtà molto diversa da quella che le era stata prospettata: il proprietario del locale non aveva bisogno di cameriere ma un posto per lei c’era, solo che il lavoro consisteva nel ballare in topless, muovendosi intorno ad un palo. Nonostante tutte le perplessità, Svetlana ha accettato quel lavoro, come soluzione temporanea, per mettere da parte qualche soldo. Con il passare del tempo, il lavoro non si limitava più a ballare mezza nuda ma Svetlana doveva essere “carina” con i clienti. Al suo rifiuto, la ragazza era stata minacciata non solo di perdere il lavoro ma le era stato fatto capire che non le avrebbero permesso di trovare un lavoro in nessun altro locale della zona. La minaccia più temuta, però, era quella di ritorsioni nei confronti dalla sua famiglia, rimasta in Romania.


Una notte, un cliente voleva portare Svetlana fuori dal locale. La ragazza si era rifiutata di andare con lui: aveva saputo da una sua collega che quello era un tipo che picchiava le donne. Dopo un cenno del proprietario del locale, Svetlana è stata costretta ad accompagnare il cliente fuori dal locale.


Il corpo di Svetlana è stato ritrovato il mattino seguente, in un parcheggio poco distante dal locale, riverso sull’asfalto.


 


 


Pietro è un ragazzo con i problemi tipici del giorno d’oggi. Ha una compagna e un bimbo piccolo da sfamare. Lavora saltuariamente nella zona del porto, carica e scarica la merce dai container. In realtà lavora “in nero”. Il problema non è nella precarietà della sua situazione: tante tipologie di rapporto di lavoro, attualmente, sono precarie (tempo determinato, a progetto, contratti di collaborazione, ecc) ma almeno hanno una parvenza di legalità.


E’ il giorno di paga. Il suo capo lo chiama e gli comunica che in quel periodo gli affari sono andati male e che lo “stipendio” è meno della metà di quanto pattuito. Pietro prende quei pochi soldi, pensando all’affitto, alle bollette, alle bocche da sfamare. Prende quei soldi in silenzio. Il silenzio di chi è costretto ad accettare, rassegnato e impotente di fronte all’ingiustizia. Quel silenzio in realtà è un urlo, disperato ma senza voce. Riesce a stento a trattenere le lacrime.


Pochi giorni dopo, Pietro, in preda alla disperazione più totale, ruba del cibo in un supermercato. E’ stato arrestato e rischia una condanna per furto.


 


 


Imal è un bambino indiano che passa le sue giornate a cucire scarpe e palloni, insieme ai suoi genitori. Lavorano per una multinazionale americana.


Imal è felice di poter aiutare la famiglia con il suo lavoro e, mentre cuce, chiude gli occhi e sogna un giorno di poter indossare anche lui quelle scarpe e di poter giocare con un pallone. “Papà, un giorno anch’io potrei giocare a calcio, magari in uno stadio?”. “Certo, figlio mio”, risponde il padre.


“Papà, stavo pensando che siamo fortunati per il fatto che gli americani ci danno questo lavoro”. E il padre: “Certo, Imal”. “Papà, quindi gli americani sono persone generose!”. Suo padre risponde: “Imal, in realtà loro ci guadagnano vendendo i prodotti che noi realizziamo. Inoltre, il fatto che sono cuciti a mano ne aumenta il pregio e quindi anche il prezzo e, di conseguenza, il loro profitto”. Il bambino sembra un po’ turbato dalla risposta: “Ah, capisco. Però li fanno cucire a noi perché siamo i più bravi, vero papà?”. E il papà: “Veramente ci danno il lavoro perché possono pagarci meno di tutti. Dare lo stesso lavoro a loro connazionali comporterebbe una spesa molto maggiore e guadagnerebbero meno soldi”.


L’espressione sul volto di Imal è completamente cambiata: “Papà, perché noi siamo pagati meno di altri per fare lo stesso lavoro? Questo vuol dire che siamo sfruttati”. Il padre non risponde, stringendosi nelle spalle.


Imal continua a cucire palloni ma il suo sorriso si è spento e ha lo sguardo perso nel vuoto, lo sguardo di chi non sogna più.


 


 


La schiavitù è stata formalmente abolita in tutti i paesi del mondo. Solo apparentemente.

  • a 2 piace - 2 commenti
  • myr0
    .Sono schiavi del terzo millennio....:(
    13 aprile 2015
  • kaigo
    già...la schiavitù esiste ancora, non nella forma tradizionale, si è evoluta in forme più sottili e ci sono tante persone legate da catene invisibili.
    14 aprile 2015

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